Quando decisi di approfondire la mia passione per i cani, cominciai a lavorare come “apprendista” presso un campo di addestramento della mia zona. Una domenica mattina si presentò una ragazza con un pastore tedesco di nome Otto per iniziare la preparazione all’obbedienza in “Utilità e Difesa”.
Era un cane bellissimo, dall’aspetto fiero e potente, lo sguardo penetrante, i movimenti eleganti e sicuri. Ricordo ancora che a stento riuscivo a guardarlo senza provare un certo timore. Il cane imparava in fretta, mostrava molto entusiasmo in campo e aveva un buon rapporto con la conduttrice. Insomma tutto stava andando per il meglio, fino al giorno della prova di indifferenza allo sparo in condotta senza guinzaglio: quando l’addestratore esplose in aria il colpo a salve, Otto cominciò a correre per tutto il perimetro del campo come impazzito.
Tutti i tentativi di fermarlo furono vani, anzi sortirono l’effetto contrario: il cane, ancor più terrorizzato, saltò la staccionata e si dileguò nel bosco. Lo ritrovammo dopo circa un’ora, dentro il capanno di un cacciatore: era esausto, tremante e con la bava alla bocca. Non dimenticherò mai il suo sguardo, quello stesso sguardo che solo fino ad un’ora prima mi faceva correre un brivido lungo la schiena, adesso era perso nel vuoto, come spento.
Nei giorni a seguire Otto non fu più lo stesso: quando arrivava al campo aveva il passo incerto e ansimava molto. Ci volle del tempo per ricreare delle condizioni di lavoro appena decenti, ma non ci fu niente da fare: Otto non riusciva a sentirsi tranquillo dopo il giorno dello sparo, quando conobbe la paura che fino a quel momento non aveva mai provato o, forse, non così intensa da fargli perdere completamente la lucidità. Certo la metodologia di addestramento più in voga in quegli anni avrebbe dato delle indicazioni molto precise su come costringere il cane a non aver paura, ma il mio maestro fortunatamente, pur essendo anziano di età di mestiere, non credeva nella costrizione. Non sapevamo cosa fare, eravamo completamente persi a tal punto di dichiarare il cane non idoneo all’utilità e difesa.
Otto non aveva bisogno di addestramento, non in quella fase almeno. I tempi, però, non erano ancora maturi per parlare di un cane in termini di emozioni proprie di un essere senziente: un cane era un cane e basta.
Forse, se avessi incontrato Otto oggi, avrei capito che dietro quello sguardo fiero si nascondeva la paura, espressa con posture e comportamenti che in quegli anni non ero in grado di apprezzare. Questa piccola esperienza ha influito definitivamente sulle mie scelte future in campo cinofilo: la riabilitazione comportamentale con particolare attenzione ai cani ansiosi e fobici.
Perché un cane è fobico? Che differenza c’è tra ansia, paura e fobia e come hanno origine? Cosa si può fare da un punto di vista rieducativo?
Premetto che la trattazione che seguirà nelle prossime pagine non esaurirà l’analisi degli argomenti citati, considerata la loro vastità e dinamicità sia per contenuti che per gli inevitabili collegamenti che caratterizzano tale ambito.
Questo è il primo di una serie di articoli nei quali cercherò, appunto, di spiegare da un punto di vista rigorosamente scientifico l’origine e le conseguenze delle ansie, delle paure e delle fobie. Poiché gran parte della psicologia cinofila e della etologia contemporanea trae spunto dalle teorie psicologiche in ambito umano, partirò da tali riferimenti per poi arrivare allo specifico ambito cinofilo. Infine affronteremo il lato pedagogico ovvero “che cosa si può fare”.
Auguro a tutti buona lettura e per chi avesse dubbi, domande, suggerimenti, critiche o quant’altro, può contattarmi grazie al form in fondo all’articolo.
Paura, ansia, fobia in psicologia
Per scampare ad una situazione potenzialmente pericolosa, è necessaria la paura: essa cioè è funzionale alla vita. Prima di un esame scolastico è appropriato provare ansia. E’ perfettamente normale essere irritati se ci rubano il portafogli. Quando si parla di questi tre fenomeni, quindi, è necessario fin da subito precisare che di per sé essi non necessariamente rappresentano degli esiti patologici, ma anzi possono essere normali e necessari.
“Ciò che li rende abnormi è la loro gravità, la durata prolungata, il loro verificarsi in reazione ad uno stress situazionale inadeguato, nonché l’effetto deleterio che hanno sul funzionamento sociale“. Altra loro peculiarità è che in alcuni casi in cui lo stress situazionale è particolarmente alto, possano presentarsi insieme. Infatti “[…] ansia e irritabilità sono correlate sotto il profilo fenomenologico; nell’irritabilità, si aggiunge l’aggressività all’esperienza soggettiva della tensione. […] L’ansia e la fobia sono correlate, dal momento che la fobia è ansia che si verifica in una situazione specifica“.
Possiamo affermare, quindi, che non può esserci una sola risposta ad una determinata situazione, bensì si può palesare uno stato emotivo come complessione di diversi esiti esperenziali introiettati nel tempo o come vissuto immediato.
E’ chiaro che, qualsiasi sia il paradigma a cui intendiamo far riferimento, stiamo parlando di emozioni ovvero di stati interni e come tali oggettivabili nella misura in cui una popolazione statistica di individui caratterizza all’esterno le modalità di risposta ad un evento più o meno stressogeno, proprio dell’ambiente in cui vive.
Non a caso ho parlato di individui: esistono infatti delle variabili soggettive (legate al vissuto) e quindi non propriamente oggettivabili e legate, in parte, ad un fattore ontogenetico. Pertanto, il termine “ambiente” presuppone un’alta variabilità dovuta al dinamismo tecnologico e sociale che ha caratterizzato in special modo gli ultimi due secoli.
La paura nel cane: come si impara la paura?
In base alla definizione proposta, gli autori forniscono una specificazione, di origine comportamentista, che caratterizza il processo esperienziale della paura:
- variabili indipendenti: ovvero le situazioni stimolo che elicitano le varie risposte comportamentali;
- variabili dipendenti: ovvero le riposte comportamentali elicitate e che interessano la sfera fisiologica e psicologica dell’individuo
- variabili intervenienti: ovvero, in questo caso, la paura. Infatti questa classe di variabili (Miller, 1948; Spence, 1960, 1966) serve “[…] ad ordinare in modo più economico i rapporti, alle volte estremamente complessi, che intercorrono tra variabili indipendenti e quelle dipendenti”.
Questa datata definizione che propone lo schema del condizionamento classico stimolo – risposta, ci aiuta a capire l’importanza pratica e concettuale che ha l’inserimento dello stato emotivo, in questo caso la paura, nel processo comportamentale in esame. In questo sistema non c’è quindi un tramite, un filtro che possa in qualche modo influenzare l’attivazione dei pattern comportamentali.
L’introduzione concettuale delle emozioni, in questo caso la paura, rappresenta un’innovazione importante secondo il modello neocomportamentista prima e cognitivista successivamente: Stimolo – Emozione – Risposta. Hull, Spencer, Miller, ecc., eseguono una serie di esperimenti dai quali si ricava un modello secondo il quale, in questo caso, la paura agisce come variabile interveniente che interagisce con l’apprendimento, modellandone il comportamento: in questo modo si costruisce l’esperienza dell’individuo. Levitt (1967) e Spielberg (1972), approfondendo tali ricerche, teorizzano la distinzione tra ansia e paura:
- Paura: elicitata da situazioni-stimolo precise e definite
- Ansia: elicitata da situazioni-stimolo non ben definite
Diversi livelli di paura
Tuttavia O’Leary e Wilson (1975), Rachman (1974) e Wolpe (1976), non accettano tali categorie, bensì parlano di diversi livelli di intensità di paura: focali e diffuse.
- Focale: definita da specifiche situazioni – stimolo e comunque in quantità ridotta
- Diffuse: non definibili da situazioni – stimolo precise e comunque in quantità tale da non poter attribuire lo stato emotivo ad un fenomeno preciso
Non esistono più quindi solo stimoli e risposte, ma individui che esperiscono fenomeni attraverso il filtro delle proprie emozioni.
Ma la paura è uno stato emotivo che si acquisisce per apprendimento, come visto sopra, o vi è anche una componente innata? Il dibattito su questo argomento ha una storia che risale agli albori della psicologia e che si è sviluppato nel tempo ramificandosi in molteplici teorie e paradigmi. Approcci quali la Gestalt, la Psicoanalisi, il Cognitivismo, il Comportamentismo, l’Etologia, ecc. danno tutti un loro contributo a quello che è il dispiegarsi di tale questione.
Tutte le ricerche condotte, tuttavia, sembrano raggiungere, sebbene per strade diverse, un risultato comune: tutto ciò che riguarda l’essere vivente, compresi quindi gli stati interni ovvero emotivi, sono il risultato dell’interazione tra i fattori filogenetici (tratti comportamentali dovuti alle caratteristiche genetiche dell’individuo) e quelli ontogenetici (tratti comportamentali influenzati dall’ambiente fisico e sociale nel quale vive l’individuo).
Giusto per citare una delle ricerche più famose in merito all’aspetto innatista, Sacket (1966), Marks (1968) e Gray (1971) condussero degli esperimenti su delle scimmie. Queste, isolate fin dalla nascita e senza possibilità di aver modo di acquisire nessuna forma di apprendimento sociale, mostrarono segni di paura, quando furono mostrate loro diapositive in cui erano ritratte scimmie che manifestavano predisposizione alla lotta.
Tralasciando l’approfondimento sulla discussione dei risultati, nonché l’aspetto puramente etico che può sorgere nella trattazione della metodologia (in quegli anni l’aspetto etico delle ricerche psicologiche non era preso in considerazione sia nella sperimentazione animale né su quella umana), ciò che i ricercatori hanno evinto, lascia dedurre che vi è una componente innata e quindi filogenetica per quanto riguarda tale sfera. Gray (1971) in particolare propone una classificazione delle situazioni – stimolo in grado di generare paura, individuandone quattro indicatori:
- intensità;
- novità;
- pericolosità per la sopravvivenza della specie;
- rischiosità per l’adattamento interpersonale.
Questa teorizzazione va oltre il semplice innatismo in quanto prevede che gli stimoli che rientrano nell’indicatore 4., riescano ad acquisire la caratteristica di elicitare risposte di paura tramite un processo di apprendimento. Gli altri che si possono classificare secondo 1., 2. e 3. sono in grado di suscitare tali risposte indipendentemente dal bagaglio esperienziale dell’individuo.
La paura non è la semplice risposta ad un pericolo
La paura è una risposta comportamentale normale, se adeguata al contesto, ed è funzionale alla sopravvivenza. Ma non è una semplice “risposta” ad una situazione di pericolo. La paura è soprattutto un’emozione. Riconoscerla in un essere vivente ha cambiato, ed ancora sta cambiando, la visione della mente umana.
Sembra incredibile, ma solo da pochi anni l’uomo ha “giudicato” capace l’animale di provare emozioni.
Nel prossimo articolo andremo più nello specifico parlando di ansia.
Andrea Berti: mi presento
Ciao a tutti gli utenti di My Pet’s Hero.
Quando sono nato avevo una sorella. E’ stata la mia baby sitter, la mia compagna di giochi, la mia unica e insostituibile compagnia. Passavamo tutti pomeriggi sotto al tavolo della cucina o a rincorrerci per casa. Dormivamo insieme. Si chiamava Bully ed era una cagnolina bianca e nera.
Da questa esperienza ho capito, fin da “cucciolo”, che comunicare non è solo parlare, ma è qualcosa di più profondo, che va al di là di qualsiasi apparenza: quando ho a che fare con i cani e i loro compagni umani, lo tengo sempre ben presente.
Mi chiamo Andrea Berti e lavoro nel campo dell’Educazione Cinofila da circa undici anni. I miei campi di azione sono: la relazione e comunicazione Cane-Uomo e Cane-Cane, la relazione e la comunicazione Cane-Bambino e Bambino-Cane, la cura (dal punto di vista comportamentale) di cani con stress, ansie, fobie. Tutto il mio lavoro si basa su metodi provati scientificamente e assolutamente NON violenti e NON coercitivi, da me, per altro, rifiutati e combattuti.
Un po’ di curriculum formativo: laurea magistrale in Scienze dell’Educazione, master in “Operatore con il cane nelle attività e terapie assistite dagli animali” e master in “Istruzione Cinofila” entrambi conseguiti presso l’Università di Pisa, vari stage formativi. Collaborazioni: comunità per minori “Isola che non c’è” di La Spezia, Istituto di Neuropsichiatria Infantile Irccs Stella Maris di Pisa al progetto “Al di là delle nuvole” e al progetto “ Senti chi abbaia”, consultorio cinofilo dell’Università di Pisa.
Attualmente co-titolare, insieme alla Dott.ssa Valentina Nuti,dell’ a.s.d. Pet&Family Group.